Questo racconto breve fa parte del progetto Narrativa anti-coronavirus: racconti gratuiti per superare la pandemia. Si tratta di un’iniziativa per distrarci, rilassarci un po’ e non pensare alla situazione in cui siamo. Per divertirci, anche. Tutti i racconti sono ideati, scritti e pubblicati durante queste giornate, appartengono a generi diversi, ma come elemento costante hanno l’ambientazione: sono tutti ambientati entro i confini di una casa.
Piccolo disclaimer: a causa della rapidità di scrittura e pubblicazione sul sito, nei racconti possono esserci imprecisioni, refusi e quant’altro. Me ne scuso, cercherò di sistemarli nelle revisioni future. Spero possiate comprendere la situazione.
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EROI IN ERBA
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«Allora, che ve ne pare?» domandò Luigi lanciando lo zaino sul pavimento.
«Polveroso?» rispose Fabio, dopo qualche secondo di silenzio.
«Vuoto?» replicò Giulia.
«Uff, che noiosi. È perfetto, è tranquillo. Non ci disturberà nessuno qui.»
Luigi avanzò lungo la sala aprendo le braccia come a voler abbracciare l’intera stanza. Si voltò verso i suoi compagni di scuola.
«Forza, non statevene lì impalati all’ingresso.»
«Non sono molto convinto.»
«Dai, Fabio, forse sarà anche divertente.»
«Esatto, questo è lo spirito giusto!» esclamò Luigi.
Andò a sedersi sul lungo tavolo, l’unico arredo presente nella stanza.
«I miei non hanno ancora iniziato a sistemare questa casa, credo che inizieranno a lavorarci con l’arrivo della primavera. Abbiamo tutto il tempo che ci serve.»
Giulia andò verso una delle pareti, accarezzò il muro di mattoni grezzi, si tolse lo zaino e scivolò seduta al pavimento. Con una mano si sistemò meglio il cerchietto per i capelli. Fabio fece solo un paio di passi in avanti poi si fermò. Come gli altri, si liberò dal peso sulle spalle, lo gettò ai suoi piedi. Sospirò, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans.
«Eccoci qui, il capitano della squadra di calcio, la secchiona e il tizio strano a cui nessuno rivolge la parola» commentò.
«Be’, noi te la rivolgiamo! Gliela rivolgiamo no, secchiona?» scherzò Luigi, rivolgendosi verso la chioma castana della ragazzina.
«Sì, sì, capitano» rispose lei, lingua di fuori.
«Se non fosse successo quello che è successo, non me l’avreste rivolta mai. Tu saresti stato troppo impegnato a farti bello di fronte alle ragazze con i tuoi muscoli e tu saresti stata presa da qualche servizio per il giornalino della scuola.»
«Sì, be’, quello che è successo è successo e ora ci siamo dentro insieme. Noi tre. Insieme. Va bene?»
«Oddio, si vede proprio che sei un capitano, Luigi. Ci stai riciclando un discorso da spogliatoio?» ridacchiò la ragazza.
«Probabile, probabile.»
«Sì, ok, ma cosa è successo?» chiese Fabio.
E fu quella domanda a far scendere il silenzio nella stanza.
«Io ricordo solo di aver voluto bloccare quell’auto. E non so, ho alzato le mani ed è successo. Si è bloccata, no?»
Giulia si passò le mani sulla fronte, annuendo pian piano.
«Sì, Luigi, si è bloccata. Il bambino l’hai salvato. Ma l’auto si è pure ribaltata all’indietro se è per quello.»
«Non volevo farlo. Davvero, solo che… Non lo so. Ci ho messo troppa forza?»
«Troppa forza in cosa?» intervenne Fabio.
«Io… Non lo so.»
«Io ricordo che quando ho visto l’auto prendere fuoco ho desiderato che le fiamme si spegnessero. Il bambino era ancora lì vicino e ho pensato che avrebbe potuto farsi male» riprese Giulia.
«Ti ho vista alzare le mani. Così come avevo fatto io.»
«Sì. Le ho alzate. Non so perché, ma l’ho fatto. È stato puro istinto.»
«E le fiamme si sono alzate in volo e sono andate nei tuoi palmi. Ti sono entrate dentro.»
«Già…» Giulia si guardò le mani, ripensando alla scena.
«E poi è intervenuto Fabietto, il nostro caro tipo strano a cui nessuno rivolge la parola, eh?» domandò Luigi, rivolgendosi verso il ragazzo.
Fabio fece una smorfia, nel volto del capitano vedeva un largo sorriso, in quello della futura giornalista preoccupazione.
«Io non ho idea di cosa abbia fatto, ragazzi.»
«Hai alzato le mani» lo incalzò Luigi.
«Ho alzato le mani.»
«Verso di noi.»
«Verso di voi.»
«E ci hai fatto qualcosa.»
«Non so cosa.»
«Credo di parlare a nome di tutti dicendo che nessuno di noi sa cosa sia successo.»
«Io ricordo che quando Fabio mi ha puntato la mano, mi sono sentita stanca. Svuotata.»
«Anche io» disse Luigi.
«Cosa vi ho fatto, ragazzi? Cosa vi ho fatto?»
«E chi lo sa, amico.»
«Non sono tuo amico.»
Luigi fece un gesto con la mano, come a voler scacciare quella risposta.
«Credo che…» iniziò Giulia.
«Cosa?»
«Credo che tu ci abbia bilanciato. Io mi sentivo esplodere dopo aver assorbito le fiamme. Tu, Luigi?»
«Mi sentivo fortissimo dopo aver capottato l’auto.»
«Ecco. Fabio, ci hai bilanciato. Ci hai tolto qualcosa» concluse la ragazza.
Il silenziò scese di nuovo fra loro. Passò qualche secondo, poi tutti e tre parlarono allo stesso momento.
«Dobbiamo allenarci con questa roba» fece Luigi, saltando giù dal tavolo.
«Dobbiamo capire cosa siamo in grado di fare» disse Giulia, tirandosi in piedi.
«Sono l’unico che preferirebbe che tutto ciò non fosse mai successo?» domandò Fabio.
Luigi tirò su il cappuccio della felpa.
«Esagerato» commentò Giulia.
«Anche l’occhio vuole la sua parte, no?»
Si incamminò verso gli zaini lasciati a terra, li raccolse e li dispose in fila sul bordo del tavolo. Davanti a lui macchie di colore, personaggi di cartoni animati e scritte a caratteri cubitali lo aspettavano.
«Ora fatemi concentrare, ragazzi» disse, alzando lentamente le braccia.
Alla sua sinistra Giulia e Fabio si guardarono, con un’espressione perplessa, stringendosi entrambi nelle spalle. In effetti nessuno lo stava disturbando.
Luigi puntò le mani verso gli zaini e chiuse gli occhi. Esplorò dentro di sé, cercando lo stesso slancio che aveva provato la frazione di secondo prima di ribaltare l’auto. Tuttavia più cercava, più si rendeva conto che la mente andava invece agli zaini sul tavolo. Rigettava il pensiero indietro, verso il suo corpo, verso le mani protese in avanti. E, sistematicamente, la mente tornava agli oggetti. Fece una smorfia, girando leggermente il capo verso destra.
«Oddio, ce la sta facendo…» udì mormorare la ragazza.
Il capitano ebbe l’impulso di aprire gli occhi e guardare qualunque cosa stesse riuscendo a fare, ma sentiva anche che non era pronto a vedere. Osservare la magia l’avrebbe fatta svanire, pensava. Si concentrò sulle mani e sul continuo rimbalzo mentale che provava tra i suoi arti e gli oggetti di fronte. Sentì dei deboli clic, le fibbie che si aprivano. Delicati fruscii, mentre scoperchiava gli zaini.
«Wow…» continuò Giulia, distante mille chilometri.
Luigi percepì il contatto con la cordicella della tasca principale, assecondando il ping pong mentale fece scorrere il cilindro di plastica. Spalancò l’apertura e nel farlo sentiva montare dentro di sé una forza vibrante. Non intensa come quella che aveva provato subito dopo l’incidente con la macchina, ma sempre crescente. In quell’attimo capì che poteva guardare senza perdere la concentrazione.
Davanti ai suoi occhi, quaderni, astucci e diari stavano fluttuando fuori dagli zaini, andando a formare una grande circonferenza in aria. Alla fine si sollevarono anche i tre zaini, flaccidi da vuoti, che andarono a mettersi al centro della cerchio. Gli altri oggetti iniziarono a roteare in circolo, mentre gli zaini a girare attorno a loro stessi.
Il capitano della squadra di calcio sorrise. La tensione che sentiva dentro di sé era più forte di qualunque emozione avesse mai provato prima in vita sua, sia dentro che fuori dal campo di gioco.
“Vorrei che non finisse mai” si ritrovò a pensare, mentre faceva danzare gli oggetti nell’aria.
Giulia non riusciva a distogliere gli occhi da quello spettacolo. Era quasi ipnotico. E destabilizzante. Cosa poteva significare ciò che stava vedendo in quel preciso momento, per l’intero pianeta? Per la scienza, per la cultura umana? Soprattutto, come era possibile? Il flusso dei pensieri venne interrotto dalla voce di Luigi.
«Tocca a te ora, secchiona.»
La ragazza distolse lo sguardo. Luigi la guardava sorridendo, sorridendo davvero, sempre con le mani protese avanti.
«Io… Non saprei cosa fare.»
«Nemmeno io lo sapevo. Eppure guardami!»
«Ti vedo. Ti vedo eccome. Ma non ci sono fiamme qui.»
«Forse puoi anche crearle, no?» azzardò Luigi, sollevando leggermente le spalle.
«Crearle, dici?»
Giulia non era molto convinta, le sembrava una faccenda così violenta, quella del fuoco creato dal nulla. Sospirò e provò a fare come aveva visto fare a Luigi, chiuse gli occhi e rimase ferma un attimo. Sollevò le mani in alto e puntò dall’altro lato del tavolo. Non voleva certo dare fuoco al loro materiale scolastico.
Sentiva qualcosa che non riusciva ad afferrare, a capire davvero. Come un elastico, una corda tesa che la legava al punto che aveva guardato poco prima di chiudere gli occhi. Era come se quella parte di mondo, quel cumulo di aria vuota, fosse diventato parte di sé. Riusciva a percepire le vibrazioni, il movimenti dell’aria, la velocità delle particelle. La loro temperatura.
«Porca paletta» commentò da qualche parte nella stanza Luigi. La sua voce era ovattata, distante come se Giulia si trovasse dall’altra parte della tavolata, anziché al suo fianco. Come se lei fosse quella massa di aria in agitazione.
Dentro di sé, dentro il suo vero corpo, sentiva crescere il calore. Era gennaio inoltrato, ma lei aveva caldo come se fosse aprile. Giugno. Agosto. Non sudava, sulla pelle non percepiva niente, ma dentro, dentro si sentiva esplodere. Ed era stupendo. Tese il cordone mentale che la legava all’altra sezione di sé, quella fatta d’aria, e vi convogliò il calore. Tutto insieme, in un solo momento.
«Woooooo, Giulia! Che figata megagalattica!» esclamò il capitano di calcio, sempre lontanissimo.
La ragazzina aprì gli occhi, mantenendo ferme le mani. Ora non sentiva più caldo, ma i suoi occhi erano di nuovo come ipnotizzati, mentre guardava un fuoco ardere a mezz’aria sopra il tavolo. Le lingue rosse salivano verso l’alto, caotiche, ma appena si rese conto di ciò, riuscì anche ad accarezzarle, a sistemarle. Il fuoco si modellò davanti a lei, diventò una sfera unica, crepitante. La vita scoppiettava in lei, Giulia non si era mai sentita così vera, così concreta, così potente. Non poteva rinunciare a quella sensazione, era troppo bella.
“Sono io. Sono io che lo sto facendo” rifletté, dando al fuoco la forma di una mano chiusa a pugno col pollice alzato.
Fabio non aveva tolto le mani dalle tasche nemmeno un secondo. Aveva osservato le prove dei due ragazzini senza fiatare, guardando gli oggetti danzare di fronte a Luigi, le fiamme nascere ed evolvere mezzo metro sopra il tavolo.
Anche se non riusciva a vedere bene i volti dei suoi compagni, poteva immaginare le loro espressioni estasiate. Lo sentiva nell’aria. Sentiva l’aria fremere.
«Vai, Fabietto, è il tuo turno!» urlò Luigi.
Fabio non si mosse, anche se iniziava a percepire dentro di sé la voglia di alzare le mani. Di connettersi.
«Dai, coraggio! Lo abbiamo fatto noi, puoi farlo anche tu» rincarò la dose Giulia.
«Fare cosa? Cosa dovrei fare?»
«Bilanciaci, come ho detto prima. Prova.»
Al ragazzino pareva che fosse tutto facile per loro. La realtà è che non aveva idea di cosa dovesse fare. L’unica cosa che sapeva è che non riusciva più a ignorare le fluttuazioni che sentiva arrivare dappertutto intorno a lui. Le voleva assaporare. Tirò fuori le mani dai jeans e puntò, una verso Luigi, l’altra verso Giulia. Chiuse gli occhi.
Era come se lo spazio vuoto che lo separava da loro non esistesse più. Delle onde lo stavano investendo, provenienti dalle due direzioni. Come un marea, lo attraversavano e si ritraevano verso i ragazzi. Avevano un sapore buonissimo. Si stupì di sentire un gusto legato a quell’energia che lo connetteva ai due compagni. Sapeva quasi di caramello. Poi riuscì ad andare oltre i ragazzi, le onde ora arrivavano anche dalle fiamme e dalla danza del materiale scolastico. Quattro flussi dolci che lo accarezzavano, lo seducevano e poi lo lasciavano da solo, abbandonato, inutile, come era abituato a essere sempre nella vita, a casa e a scuola.
“No, non ora. Non più” pensò, tirando le onde a sé.
Iniziò a tendere quell’energia, l’andirivieni immateriale si arrestò e si trasformò in un risucchio unidirezionale. Dai quattro punti che aveva bloccato nella sua mente, Fabio avvertì le onde arrivare, entrargli dentro e non uscirne più. La forza andava a depositarsi dentro di lui. Cresceva.
Sentì il rumore degli oggetti che precipitavano a terra, un pop arrivare dall’altro lato della stanza.
«Ha spento le mie fiamme! Hai spento le mie fiamme, grande!» la voce di Giulia, frasi che dovevano essere esclamazioni, ma gli sembravano sussurrate.
Le quattro onde erano diventate solo due. Fabio percepì dentro i ragazzini. Il caramello che era al loro interno, la sua dolcezza, la sua potenza. Continuò a tirare.
«Ehi, amico.»
Fabio assaporava, dentro di sé cresceva la marea e più cresceva più ne sentiva il bisogno, il bisogno di averla dentro di sé, di conservarla, di evitare che venisse dispersa. Il ragazzino assorbiva gioia, resistenza, energia.
«Fabio, basta…»
Una voce femminile, da qualche parte nell’universo. Il suono indistinto di un tonfo a terra, seguito dopo qualche secondo da un altro.
«Basta…»
Una voce maschile, dal basso, come se fosse il pavimento a parlargli. Come se l’onda che fluiva da lui da terra avesse una voce, ma non poteva avere una voce, perché quell’onda era zucchero, era invisibile, immateriale, incorporea e solo quando la riponeva dentro di sé finalmente cominciava a esistere davvero. Fabio si sentiva sempre più forte, saldo, sicuro di sé. Pieno.
«Basta, ti prego, basta…»
Un sussurro femminile, che si spegneva pian piano.
«Amico…»
Qualche secondo e le onde si arrestarono. Nel buio, Fabio percepì che la marea era finita, il caramello era al massimo della sua squisita dolcezza. Silenzio, attorno a lui. Il ragazzino aprì gli occhi, abbassando le mani.
Davanti a lui, riversi a terra, i corpi privi di sensi di Luigi e Giulia, la pelle pallida come non l’aveva mai vista.
“È bellissimo. È incredibilmente bellissimo” concluse, assaporando lo zucchero che aveva accumulato.
Si avvicinò al suo zaino, ripose quaderni, libri e astuccio all’interno, chiuse tutto e se lo mise sulle spalle. I muscoli guizzavano come se avesse fatto tutto il giorno sport, lui che non riusciva a correre per più di cinque minuti senza avere il fiatone. La sua mente era lucida e pulita, come se qualcuno avesse messo in ordine i suoi pensieri.
Guardò i due corpi e per un attimo pensò che forse avrebbe dovuto essere dispiaciuto per loro. Subito dopo, si rese conto che non li conosceva nemmeno. Non avevano mai parlato prima d’ora e Luigi, ne poteva essere quasi certo, era di sicuro uno di quelli, tra i tanti, che ridacchiavano al suo passaggio nei corridoi della scuola. Su Giulia non poteva scommetterci, ma probabilmente anche lei sparlava di lui con le ragazze del suo circolo di lettura. Fabio non aveva amici, non aveva nemmeno conoscenti, ma ora che dentro di sé aveva quel caramello, sapeva di non essere più solo. Dentro di sé aveva la marea, le onde, l’energia, il tutto della stanza.
Avanzò attraverso la sala spoglia, lasciando tracce nella polvere sul pavimento. Arrivò fino alla porta, strinse la maniglia, non la sentì fredda come si sarebbe aspettato. Gli piacque sentirla calda.
“Cosa sto facendo?”
Una frazione di secondo nella sua mente, uno sprazzo nella nebbia zuccherina, la visione dei due corpi lividi a terra. Il cappuccio di Luigi in forma scomposta sul pavimento, il cerchietto di Giulia storto sulla testa.
Fabio si voltò verso di loro. Sentiva il suo corpo fremere. L’energia vibrare. Così come ne aveva assaporato il gusto, ne percepì l’emozione. L’avidità.
“Cosa sto facendo?”
Anche a occhi aperti, anche senza le mani protese, sentiva pulsare debolmente quei piccoli corpi. C’erano ancora delle onde là dentro. Altro caramello.
“No.”
Altro zucchero.
“No.”
Altra energia.
“No, no.”
Altra vita.
“Ho detto no!”
Fabio alzò le mani, le puntò verso i due ragazzini e pensò che potevano diventare amici, potevano diventare tutti e tre amici e avrebbero potuto giocare e ridere ed essere felici insieme, ma per farlo avrebbero dovuto essere vivi. Tutti vivi.
Le onde esplosero dalle sue mani e si riversarono verso terra. I flussi dolci scoppiavano verso Giulia e Luigi, Fabio tremava mentre riversava l’energia dentro di loro. Era più forte, più intensa di quando l’aveva assorbita. Fluttuava nell’aria della stanza, andava a muovere i corpi. Il pallore scomparve, gli occhi lentamente si aprirono.
Fabio percepiva il vuoto dentro di sé, la marea che si allontanava, che lo abbandonava. O meglio, di essere lui ad abbandonarla. Guardò mentre i ragazzi si rialzavano a fatica, aiutandosi con le mani, mettendosi dapprima in ginocchio, poi in piedi. Il caramello dentro di lui era scomparso, ma le due onde non si erano ancora fermate. Fabio sentiva ancora la marea andare via da lui, verso di loro. Con gli occhi incrociò gli sguardi dei suoi compagni. Nei loro volti vide terrore.
«Basta, Fabio, basta!» urlò Giulia.
La voce gli arrivava da davanti, da dietro, da tutte le parti. Non capiva, non sentiva, non vedeva, si sentiva prosciugato. Non c’era più caramello, non c’era più marea, non c’era più nulla. Gli occhi gli si appesantirono, tutto diventava buio attorno a lui. Rumori di passi che correvano nella sua direzione. Qualunque essa fosse.
Mentre precipitava a terra vide dentro di sé. Vide il vuoto. Vide l’assenza.
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