Pubblicazione

La casa al centro dell’universo [Narrativa anti-coronavirus #07]

Narrativa anti-coronavirus

Questo racconto breve fa parte del progetto Narrativa anti-coronavirus: racconti gratuiti per superare la pandemia. Si tratta di un’iniziativa per distrarci, rilassarci un po’ e non pensare alla situazione in cui siamo. Per divertirci, anche. Tutti i racconti sono ideati, scritti e pubblicati durante queste giornate, appartengono a generi diversi, ma come elemento costante hanno l’ambientazione: sono tutti ambientati entro i confini di una casa.
Piccolo disclaimer: a causa della rapidità di scrittura e pubblicazione sul sito, nei racconti possono esserci imprecisioni, refusi e quant’altro. Me ne scuso, cercherò di sistemarli nelle revisioni future. Spero possiate comprendere la situazione.

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Detto ciò, ti lascio al racconto di oggi, lo trovi sia in formato eBook che in formato testuale!

LA CASA AL CENTRO DELL’UNIVERSO

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C’è una casa al centro dell’universo.
Lo so, so già cosa state per dire.
“Una casa al centro dell’universo? Certo, come no, e allora io sono un pinguino!”
Eppure c’è, io ci sono dentro da qualche giorno. Potete essere ragionevolmente certi di poter dire, da dove siete voi in questo momento, che al centro dell’universo non ci sia proprio ora una casa? O di non essere davvero un pinguino?
“Eh, ma su cosa poggia? Una casa ha bisogno di fondamenta. Non esiste, è impossibile.”
Non saprei rispondervi, lo ammetto, non sono un architetto né un ingegnere. Prima mi occupavo di disegnare fumetti. Robetta per far felici le persone, insomma. Comunque, dalle finestre non ho modo di vedere granché, a parte le galassie. Che guardi dal piano terra o dal primo, gli occhi vengono assorbiti dalla vastità di stelle e pianeti, è uno spettacolo indescrivibile. Dovreste proprio venire a vederlo coi vostri occhi. Ci passi il tempo a guardare quanto di bello c’è là fuori. Tuttavia, di qualcosa su cui la casa poggi nemmeno l’ombra. Sempre che nell’universo le ombre esistano. Esistono? Dovrei informarmi appena ho tempo.
“Ok, ammesso e concesso che tu stia davvero guardando l’universo da una finestra, com’è possibile che tu riesca a respirare?”
Certo che per essere da tutt’altra parte rispetto a me, ne fate tante di domande su come vivo io, eh. Anche in questo caso però, non so cosa dirvi. Respiro, ne ho piena consapevolezza. Anzi, ogni giorno di più. Sento l’aria entrare e uscire dalle narici. Accarezzare il pezzo di pelle tra naso e labbro superiore, se mi concentro abbastanza. Lo faccio spesso quando guardo fuori dalla finestra per osservare l’universo davanti a me.
“E per mangiare?”
Nella casa al centro dell’universo c’è un frigorifero e una dispensa. Incredibile, vero? Proprio come tutte le altre case. Ci sono decine di pacchi di pasta, riso e farro, scatole di legumi di ogni tipo, anche di quelli che non avevo mai avuto il piacere di conoscere prima di arrivare qui, e in frigo tantissima verdura e ortaggi. La cosa divertente è che ogni volta che prendo qualcosa per cucinare, questa la ritrovo di nuovo allo stesso posto il giorno dopo. Nella casa al centro dell’universo il frigorifero fa la spesa al posto mio. Che comodità! Non devo nemmeno perdere tempo a cercare parcheggio o fare la fila.
Riesco a immaginarvi, sapete? Alcuni di voi staranno sorridendo. Altri scuotono la testa. È normale, fa parte dei giochi, la perplessità è una condizione dello spirito umano, non mi sorprende. Infatti, se mi fermo un attimo a riflettere, posso ragionevolmente sentire arrivare la vostra prossima domanda. La farei anch’io, al posto vostro.
“Come fai a sapere che è al centro dell’universo?”
Eccola qui, me lo sentivo. Be’, su questo posso rispondervi facilmente. È semplice, sapete? Sopra la porta di ingresso ‒ o forse sarebbe meglio dire di uscita ‒ c’è una targa in argento con una scritta a caratteri cubitali.
Questa casa si trova al centro dell’universo. Si invitano gli inquilini a non uscire. Sapete, fuori non c’è altro se non l’universo.
La cosa molto divertente è che se cerco di leggere la frase in un’altra lingua, ad esempio iniziandola a pensare in inglese, questa si traduce automaticamente nella targa. E questo credo possa rispondere alla vostra domanda sul fatto che sia molto curioso e conveniente che nella casa al centro dell’universo ci sia una targa scritta proprio in italiano.

C’è una casa al centro dell’universo ed è la mia casa da circa una settimana ormai. Sempre che un’abitazione di questo tipo si possa davvero definire mia. Al piano terra c’è un grande salone diviso in due ambienti da un arco in pietra. Da un lato ci sono divani, poltrone, alcuni tavolini e un televisore gigantesco a occupare un’intera parete. Ci ho visto qualche vecchio film, quella roba che ti segna da bambino e ti porti dentro per sempre. Oppure quella roba che vedete durante quel periodo strambo di passaggio dall’adolescenza all’età adulta e interiorizzate manco fosse la lezione di un maestro di vita. Anche perché in realtà non ci sono altro se non film e serie TV. Niente telegiornali, talk show e quiz televisivi. Io lo accendo con un telecomando che ha fondamentalmente solo due pulsanti. Fa tutto lei, dopo. Dall’altro lato, comunque, è presente invece un’unica poltrona al centro del locale, mentre le mura sono ricolme di scaffali pieni di libri di ogni tipo. Non ho mai letto così tanto come in questa settimana, considerando che il tempo non ha molto senso qua dentro. Romanzi, saggi, testimonianze di viaggio, in ogni lingua io riesca a immaginare. Sì, esatto, grazie allo stesso meccanismo della targa sopra la porta. Chi ha bisogno di app per la traduzione in questa casa?
Il resto del piano terra è occupato dalla cucina. Avete presente quelle grandi cucine che si vedono nei film americani? Ampie, spaziose, sovrabbondanti? Ecco, qui è così e pure più grande ancora. Se mi serve un mestolo, un utensile, una padella, so che da qualche parte nei mille mila pensili e mobili che ci sono qui troverò quello che cerco. A volte improvviso qualche ricetta, anche se non sono mai stato molto bravo ai fornelli, altre volte pesco qualcosa di surgelato dal congelatore. Mangio un po’ quando ne ho voglia, non ho granché modo di capire quando sia il momento di preparare pranzo o cena, perché nella casa al centro dell’universo non ci sono orologi. C’è un timer da cucina attaccato sopra la piastra dei fornelli, ma è l’unico strumento che ha a che fare col tempo che sono riuscito a trovare qua dentro.
A lato della cucina c’è un piccolo bagno di servizio, con anche una lavatrice formato persona single. In effetti mi sembra così strano l’accostamento tra la grandezza di cucina e salotto, e in generale della casa intera, e la presenza di questa piccola lavatrice. Perché? Cosa aveva in mente chi ha arredato questo posto?
“Sì, ok, cucina, bagno, ora però non ti seguo più! Dove vanno tutti gli scarichi?”
Bella domanda, come sempre. Indovinate? Non ne ho idea! Voi sapete dove vanno a finire i vostri scarichi? Ne avete di sicuro un’idea generale, ma non nel dettaglio preciso, come ce l’avevo io prima di ritrovarmi qua dentro all’improvviso. Sapevo, senza sprecare più di un secondo a rifletterci, che gli scarichi vanno nelle fogne. E poi le acque vanno di là da qualche parte, in fiume o in mare, dopo qualche trattamento mistico‒tecnologico di cui nessuno di noi si cura davvero. Ecco, qui è praticamente la stessa cosa. Ho l’idea generale che gli scarichi vadano in un sistema di raccolta e dopo di là da qualche parte nell’universo, dopo qualche trattamento mistico‒tecnologico di cui non mi curo assolutamente. Però mi piace pensare che da qualche parte ora nell’universo ci sia una mia cacca cristallizzata dal freddo che vaga senza meta. Verrà intercettata da una civiltà aliena che ne estrarrà il DNA ‒ il mio DNA ‒ e mi replicherà pensandomi il fondatore dell’universo. Probabilmente lo faranno solo per sottopormi i loro reclami e lamentele. Tanto io sarò qua al centro dell’universo, tranquillo a continuare a cagare sul cesso del piano terra leggendo un libro, mentre a sorbirsi il comitato alieno di lamentela galattica sarà un mio simile, un clone, un non me di sicuro.
Che trip, vero? È così quando si vive nella casa al centro dell’universo.

Il primo piano non è da meno del terra. Ci sono quattro camere da letto matrimoniali, arredate tutte allo stesso modo, ma con tonalità di colori differenti. Dormo a turno in ciascuna di esse, non tanto per i colori, ma per il fatto che ognuna ha una finestra ampia che inquadra porzioni di universo diverse. Quindi ogni mattina ‒ o meglio, ogni volta che mi sveglio, non avendo più senso parlare di mattina, pomeriggio o sera ‒ ho una visuale nuova, di stelle e nebulose che si espandono in ogni direzione. Mi alzo e mi porto davanti alla finestra e rimango lì, fermo, braccia appoggiate al davanzale interno, con gli occhi persi nella meraviglia del firmamento. Mi chiedo dove si trovi la Terra, dove sia il mio Sole, sempre che possa definirlo mio, avendone viste centinaia e migliaia di altri da che sono qui dentro. A volte arrivo a domandarmi se ci siano anche altre case come questa. Se c’è una casa al centro dell’universo, ce ne sarà una magari anche in periferia? E se sì, costerà meno abitarci?
Sì, se ve lo siete chiesti, sì. C’è un bagno anche al primo piano. Quindi come potete immaginare, altra cacca congelata sparsa nelle galassie. Non ringraziatemi, quando gli alieni arriveranno sulla Terra pensando che il DNA umano sia in realtà divino.
Si dorme bene nei letti di questa casa. Sono soffici e accoglienti. Le lenzuola profumano sempre di pulito e una piccola radio trasmette musica di ogni genere e ogni lingua dal comodino. Alcuni quadri sono appesi alla pareti. Rappresentano cose che conosco, ma non riesco a focalizzarle bene. Sono panorami, oppure immagini di persone catturate in istanti di vita ordinari, mentre ridono, piangono, fanno l’amore. Sì, ci sono dei quadri di persone che fanno sesso. Non chiedetemi perché. Sono dipinti bene, comunque. Ogni volta che guardo queste tele, in ogni stanza io mi trovi, ho davvero la sensazione di conoscere le situazioni rappresentate, i panorami, ma semplicemente non capisco. Forse sono quadri famosi, ma non così famosi da sapere che sono famosi? Per intenderci, se trovassi qui la Gioconda, saprei dire che, ehi!, quella è la Gioconda. Però forse tra una tela ancora vuota e la Gioconda ci sono infinite sfumature di dipinti che vanno dallo sconosciuto al famoso, ma non abbastanza famoso. Forse questi quadri sono così. Potrei averli visti su Internet, in qualche museo, e non sapere che dovrei reagire come reagirei se vedessi la Gioconda. Oppure non saprei davvero. Però mi piace guardarli. Non quanto osservare l’universo, ma hanno comunque un loro fascino.
E poi, in fin dei conti, come dovrei reagire se qui trovassi davvero la Gioconda?

«Aspe’, aspe’, fammi capire ‘na cosa. Perché diavolo questa targa cambia lingua?» dice la ragazzina per l’ennesima volta.
Già, ve lo devo dire, non sono più solo nella casa al centro dell’universo. È successo un po’, o tanto, non ha più importanza, di tempo dopo le ultime riflessioni sui quadri. È comparsa questa tipa da un giorno all’altro ‒ qualunque cosa sia un giorno ‒ e ha iniziato a tempestarmi di domande. Ho risposto a quello che potevo, spiegandole un po’ quello che ho spiegato anche a voi, ma in realtà la maggior parte delle cose qua dentro è da prendere così com’è e lasciar andare come sono, senza chiedersi poi troppo come funzionino le cose. Invece questa tipa, che dice di chiamarsi Monica e a cui in tutta onestà non sono riuscito a dire il mio nome in risposta, per il semplice motivo che non lo ricordo più, sempre che l’abbia mai avuto, questa tipa, dicevo, rimbalza come una pallina di un flipper da una stanza all’altra e decisamente non si accontenta che le cose qui semplicemente vadano così. Vuole capire tutto. Encomiabile, davvero. Forse ‒ e dico forse perché non me lo ricordo ‒ anche io ero così appena arrivato qui. Ah, lei ha deciso di chiamarmi Oliver, così, semplicemente prendendo un libro a caso dagli scaffali. Sono stato battezzato dalla narrativa.
«Te l’ho già detto, qui è così, è semplicemente così.»
«No, no, no. Non me la bevo, non mi sono mai piaciute le risposte sterili.»
«Allora credo che qua dentro troverai filo da torcere, nel cercare le risposte. Io non le cerco più, ormai, e vivo molto meglio.»
«Da quanto tempo sei qui, Oliver?»
Ecco, mi guarda con quegli occhi azzurri, le braccia incrociate al petto, le labbra appena dischiuse dopo aver parlato e mi rendo conto di non saperle rispondere.
Quanto è passato? Con l’assenza degli orologi, il cibo che si ricarica automaticamente e il fatto che là fuori è tutto maledettamente uguale ogni volta, non so più da quanto tempo ‒ cosa è il tempo? ‒ sono qua.
«Uhm. Un mese? Due? Cosa è un mese?»
La ragazza si lascia andare sopra la poltrona.
«Che merda. Diventerò come te, Oliver, incapace di sapere cosa è un mese. Odio l’idea di non sapere cosa sia un mese.»
«Non è poi così male, sai? C’è tutto l’universo là fuori, è una meraviglia.»
«Sì, ma qui dentro?»
«Qui dentro il cibo è infinito, i libri si traducono da soli e il televisore trasmette sempre il film che vuoi vedere in quel momento.
«Sarà.»
«Monica?»
«Sì?»
«Ricordi qualcosa di prima?»
«Di prima?»
«Sì, di prima di ritrovarti in questa casa.»
Ora sono io che l’ho lasciata ammutolita. Già, ero certo di sortire quell’effetto. La vedo issare leggermente la schiena dalla poltrona, spalancare gli occhi, aprire la bocca e lasciare in sospeso il fiato. Puntualissime, esattamente le stesse reazioni che ho avuto io.
«Io non mi ricordo nulla. So solo che ero una ballerina.»
«Già.»
«Cosa?»
«Anche io ricordo solo ciò di cui mi occupavo. Fumetti.»
«Carino.»
Non so quanto sia carino, in realtà, ma per quanto spaventoso fosse inizialmente, alla fine ci ho fatto l’abitudine a non avere altri ricordi se non quelli di questa casa.

Al primo piano ci siamo divisi le stanze. Una ciascuno su entrambi i lati del corridoio. Abbiamo fatto i turni per il bagno, ci alterniamo ai fornelli, ci giochiamo a pari e dispari il controllo del televisore. Ognuno di noi legge un libro e poi facciamo a scambio, improvvisando un misero circolo di lettura con solo due membri. La lavatrice nel bagno di servizio è diventata più grande. Molto comodo, eh? I quadri sono un po’ cambiati, ci sono delle novità nelle stanze occupate da Monica. Quei dipinti non mi dicono nulla, nessuna sensazione di conoscerli. Forse non sono neanche famosi, ma non abbastanza famosi. I miei quadri invece non dicono nulla a lei, che invece sente qualcosa provenire dai suoi. Anche lei non riesce però a spiegarselo davvero. È strano.
È proprio ferma di fronte a una tela nella sua stanza. C’è raffigurata un’automobile su una strada, nella direzione di marcia, più in là, una ragazza sta attraversando la strada. Vedo che ai margini dei suoi occhi sono affiorate delle lacrime. Il volto però è fermo, nessun tremore, nessun tentennamento. Sono orgoglioso di come sta reagendo. Quelle lacrime sono consapevolezza, ma la determinazione che traspare nel suo viso è anche accettazione, accoglienza, serenità. Infine, volge il capo leggermente nella mia direzione.
«Oliver?»
«Sì, Monica?»
«Sono morta, vero? Siamo morti?»
Ed eccola là, la Domanda. Quella che anche voi sicuramente vi siete chiesti appena vi ho iniziato a raccontare di queste cose strambe che accadono proprio al centro dell’universo.
«Sì, Monica, sì. Siamo morti.»

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